Uno scrittore famoso chiede di emigrare

Al Comitato centrale del Partito comunista lituano

Questa lettera non dovrebbe rappresentare una sorpresa per voi. Sono uno scrittore, traduttore e studioso di lettera­tura, settori nei quali ho lavorato non poco. Penso di aver ser vito abbastanza bene la mia patria e la nazione e di essermi sempre guadagnato il pane che ho mangiato in vita mia. Ep­pure ho fatto molto meno di quanto fossi capace, ma non per colpa mia.

Mio padre, Antanas Venclova, era un comunista convinto. Come uomo, io l'ho sempre rispettato e lo rispetto tuttora. Tra l'altro, ho imparato da lui cosa significhi la fedeltà ai pro­pri principi. Tuttavia, fin dalla gioventù, osservando la vita e vivendo, mi sono formato delle concezioni diverse da quelle di mio padre, che ulteriori esperienze hanno consolidato. Ciò non è mai stato un mistero né per mio padre né per alcun'altro.

L'ideologia comunista mi è estranea e a mio parere è in gran parte errata. Il suo assoluto predominio ha portato mol­ti mali al nostro paese. Le barriere all'informazione e le re­pressioni nei riguardi di chi la pensa diversamente portano la società alla stagnazione e il paese al regresso. Tutto ciò è ne­fasto non soltanto per la cultura. A lungo andare la situa­zione può diventare pericolosa anche per uno stato che mira ii consolidarsi con tali metodi. Io qui non sono in condizione di cambiare nulla. Non lo potrei nemmeno se avessi tanto poterequanto ne avete voi. Eppure posso e perfino devo manifestare/ apertamente la mia opinione; è già qualche cosa!

Mi sono formato da molto tempo e spontaneamente le con­cezioni che ho esposto. Per molti anni non ho mai scritto né detto alcuna parola che le potesse contraddire. Guardo all'ideo logia comunista con serietà e perciò non sono disposto a ripe­tere meccanicamente le sue formule o a fingerle di accettarle. Non ripetendole posso attirarmi soltanto discriminazioni, cosa questa che peraltro, nel corso della vita, mi è capitata molto spesso.

Nel nostro paese mi sono precluse le possibilità di un'atti­vità più vasta e pubblica nel campo della letteratura, della scienza e della cultura. Nell'Unione Sovietica ogni umanista, e non soltanto lui, per poter lavorare deve continuamente dimo­strare la propria fedeltà all'ideologia dominante. Ciò è facile per i conformisti e per icarrieristi. Non è neanche difficile per le persone sinceramente convinte della bontà del comunismo (sebbene ad alcune di loro tale procedura appaia fastidiosa e umiliante). Per me questo è impossibile.

Purtroppo non so scrivere « per il cassetto ». Ho bisogno di instaurare un contatto con il pubblico e lo cercherò in qualsiasi situazione. Al di fuori dell'attività letteraria e cultu­rale non saprei e non vorrei svolgerne altre. Debbo però con­statare che le possibilità per la mia attività culturale si vanno riducendo ogni anno di più al punto che la mia stessa esistenza in questo paese sta divenendo dubbia e senza senso.

Quanto ho finora espresso riguarda anche mia moglie: an­eli'ella è una persona di cultura (regista teatrale).

Chiedo pertanto che mi venga consentito, in base alla Di­chiarazione universale dei diritti dell'uomo e alle leggi vi­genti, di emigrare all'estero con la famiglia. Il caso del mio amico Jonas Jurašas e di altri mi fa sperare che ciò non sia impossibile. Dato che mia moglie è ebrea, potremmo anche partire per lo Stato d'Israele. Questa mia decisione, è irre­vocabile. Vi prego inoltre di non discriminare i membri della mia famiglia che avendo concezioni diverse dalle mie restano in Lituania.

11 maggio 1975        T. Venclova*

 

* Tadas Venclova, scrittore, traduttore, lituanistą e linguista, nato a Klaipėda, in Lituania, nel 1937. Egli è figlio del defunto Antanas Venclova, scrittore, poeta e traduttore, ministro della Pubblica Istruzione dopo l'occupazione della Lituania da parte dell'Armata Rossa. (NdT)

 

Il 23 dicembre 1974 furono eseguite perquisizioni a Vilnius, Kaunas e in altre città della Lituania. Tra le ai­re venne perquisita anche l'abitazione di Kęstutis Jokuby­nas già detenuto per molti anni. Poco tempo dopo egli ¡irivolse al governo chiedendo l'autorizzazione ad emigra-e dall'Unione Sovietica. Tuttavia all'ufficio visti non accet-arono la documentazione da lui prodotta, in quanto vi era apposto soltanto il timbro generico: «Disposizioni sui pas­saporti ». Il Ministero dell'Interno dell'Unione confermò tale decisione. In seguito Jokubynas scrisse una lettera aper­ta al Presidente del Presidium del Soviet supremo del­l'urss. Il 25 aprile 1975 gli venne comunicato che la sua istanza sarebbe stata presa in esame. Tuttavia dopo due mesi gli giunse una risposta negativa.

Dell'emigrazione di K. Jokubynas si occupa anche un suo amico, lo scrittore A. Sinjavskij ora professore al­l'Università della Sorbona.

Presentiamo di seguito la lettera di K. Jokubynas a N.V. Podgornij.

Lettera aperta di Kęstutis Jokubynas, nato nel 1930, residente a Vilnius in Putnos g. n. 10, 125, impiegato in qualità di bibliotecario-capo presso la biblioteca centrale tecnico-scien­tifica della rssl

Al Presidente del Presidium del Soviet supremo, N.V. Podgornij

Dalla resistenza al lager

Ero ancora un liceale quando all'età di 17 anni entrai a far parte del movimento di Resistenza sorto in tutta la Li­tuania contro il potere sovietico. Nel 1948, avendo appena iniziato gli studi all'Università di Vilnius, venni arrestato per avere redatto e pubblicato alcuni numeri dattiloscritti di un giornale clandestino, cioè sotto l'accusa di« aver partecipato ad un'organizzazione nazionalista antisovietica » e, su senten­za di un oso fui condannato a 10anni di lavoro forzato in un lager. Poco dopo, ai miei genitori venne comunicato che erano stati condannati alla deportazione a vita in Siberia per il fatto che « un figlio è stato condannato a 10 anni e un altro non si sa dove sia » (mio fratello nell'estate del 1944 era stato de­portato a lavorare in Germania; come si seppe più tardi dallesue lettere, aveva potuto poi raggiungere il Canada dove vive/ tuttora). I miei genitori, modesti contadini, erano stati semprd lontani dalla politica e risiedendo in un'altra regione delll Lituania non sapevano nulla delle mie attività. Ciò nonostante furono concesse loro solo due ore di tempo per prepararsi; poi furono fatti salire su un carro bestiame ed avviati alla località di deportazione, nella regione di Krasnojarsk. Io invece fui deportato nella cittadina di Inta, all'estremo nord, e trascorsa sette anni in un lager speciale, dove maturai ed imparai a co[ noscere la vita e la morte.

A seguito di un decreto del Presidium del Soviet supremo, nel 1954 venni rilasciato prima del tempo, perché alla data del « crimine » che aveva commesso ero ancora minorenne. Ri­cevetti un passaporto con il timbro « Disposizioni sui passapor­ti », che viene apposto ancor oggi sui documenti di tutti co­loro che sono stati detenuti per i cosiddetti « reati contro lo Stato » e per alcuni altri tipi di reato. Questa annotazione non permette di soggiornare nelle piccole o grandi città del « re­gime » (per non parlare di risiedervi) e comporta alcune altre limitazioni. Dopo aver lasciato il nord mi recai in Siberia, nel­la località di esilio dei miei genitori.

Nella sperduta cittadina della Siberia le condizioni di vita e di lavoro non erano certo invidiabili, particolarmente per gli ex « zeki » (detenuti politici), soggetti al controllo degli sbirri, alla limitazione dei movimenti ed a unacostante discri­minazione. Qui, lavorando intensamente, spesso oltre l'orario, e preoccupandomi soltanto della sopravvivenza, andai a far parte della schiera dei « silenziosi e ignoti ». Eppure tutto ciò non mi servì a sfuggire all'occhio onnipresente del kgb né mi preservò dai sospetti e da varie forme di discriminazione. Sempre più frequentemente mi si presentava l'idea che per un ex « zek » non sarebbe mai stato possibile liberarsi da queste catene e che l'unica soluzione sarebbe stata quella di lasciare il paese. Il senso di insicurezza morale e materiale si accentuò in me nel 1956, quanto il kgb della regione dello Jeniseij deci­se di reclutarmi nelle sue file quale agente. A tale scopo venivo spesso convocato, minacciato e fatto oggetto di accuse provo­catorie. In quel periodo non era il caso nemmeno di pensare ad un'emigrazione legale, perché già il solo pensiero era un reato. Pertanto decisi di attendere la ripresa della navigazione sul fiume Jeniseij e l'8 agosto 1957 attuai un tentativo avventa­to e disperato: entrai nel porto di Igarka e tentai di infilarmi su una nave straniera. Avvicinata la prima persona che mi capi­tò di vedere vestita da straniero (si trattava di un meccanico della nave greca « Amula » implorai aiuto. .Ma un agente delkgb che si aggirava nei paraggi anch'egli vestito da straniero  mi fece arrestare.

Nel corso di un intero anno di estenuanti interrogatori il kgb tentò di dimostrare e di farmi confessare che appartenevo allo spionaggio britannico. Le principali « prove » contro di  me consistevano nel fatto che conoscevo la lingua inglese e in qualche lettera, in cui scambiavo con un inglese, compagno di lager, notizie sulla mia vita quotidiana. La mia causa di « spionaggio » venne trasmessa al Tribunale supremo del-I'urss, il quale la restituì al tribunale della regione di Kras-nojarsk dopo aver cambiato però il capo d'imputazione. In una seduta a porte chiuse fui processato « per tentativo di fuga dal-I'urss e in considerazione della pericolosità di tale soggetto per la società » condannato a 10 anni di privazione della libertà.

Entrando per la seconda volta nel regno dei lager, non vi trovai mutamenti di rilievo. Come ai tempi di Stalin essi erano caratterizzati dal lavoro estenuante, dal vitto scarso e pessimo e da un sistema forse ancor più raffinato di mal­trattamento dei detenuti.

Peregrinando attraverso vari lager e riflettendo sul passato e sul presente, non riuscivo a comprendere quali fossero le gravi « violazioni della giustizia » da me commesse e così pure non riuscivo a « pentirmi per il crimine commesso », co­me negli ultimi anni ammoniva di fare l'amministrazione dei lager. Mi sforzavo solo di conservare la mia dignità umana, dedicando ogni momento libero della mia giornata ad elevarmi culturalmentestudiando l'elettrotecnica ed alcune lingue stra­niere.

Dopo aver scontato 10 anni di detenzione, non mi attendevo favori e non mi sarei stupito per le difficoltà che avrei incontrato dall'altra parte dei reticolati del lager. Dopo alcuni tentativi falliti di stabilirmi in varie località, tornai finalmente a Vil-nius, che ero stato costretto a lasciare 20 anni prima. Le mie nozioni tecniche e la conoscenza delle lingue estere si rivelaro­no provvidenziali per ottenere un impiego nella biblioteca tecnico-scientifica che stava organizzando il fondo delle pub­blicazioni estere e dove venni assunto in qualità di biblio­tecario. Subito dopo mi iscrissi ad un corso per corrispondenza all'Università di Vilnius che terminai nel 1974 specializzandomi in biblioteconomia.

 

L'Unione Sovietica è tutta un grande lager

Come per il passato, continuai a restare nel numero dei si­lenziosi e sconosciuti, ma questo non mi sottrasse alla sorveglianza dell'onnipresente kgb. Il suo controllo mi seguiva non soltanto fino ai cancelli dell'Università, ma anche nel ne­gozio del pane, per non parlare di quando facevo dei viagii più lunghi. Per chi è vissuto nei lager, questa situazione ri­chiama molto il passato. Sembra soltanto che si siano allar­gati i confini della zona dove si può circolare e che siano cait-biati gli orari. Al posto dei guardiani del lager, di tanto in tanto compaiono degli agenti che ti pedinano (altrimenti come sarebbe loro possibile, nel corso degli interrogatori, dimostrare che a loro è noto ogni tuo passo?). La tua sorte dipende molto dal loro umore, dalla loro diligenza e da altri fattori, perché in base ai loro resoconti vengono tratte con assoluta certez­za le conclusioni al « vertice ». Ciò è dimostrato anche da un fatto recente e del tutto nuovo. Il 23 dicembre 1974 si stava svolgendo all'Università di Vilnius una conferenza sul tema: « La biblioteca nell'epoca della rivoluzione scientifico-tecnica », alla quale ero stato invitato anch'io. Tre minuti prima dell'inizio si presentò un civile che mostrò una tessera ad uno degli organizzatori della conferenza, il docente L. Vla-dimirov, ed ordinò di farmi uscire dalla sala. Si sentì la ben nota frase: « Venga con noi » (nonostante egli fosse solo) e mi accompagnò a casa con un'auto del kgb. Là erano ad atten­derci altre persone, munite di un'autorizzazione a perquisire la mia stanza alla pensione. In sei, diretti dal tenente colonnel­lo Kovaliov, rovistarono per ben tre ore in una stanza di 6 metri quadrati!

Essi cercavano, secondo il mandato di perquisizione, « ... ma­teriale calunnioso antisovietico relativo all'istruttoria n. 345 ». Come potei apprendere dai colloqui con il kgb, l'istruttoria riguardava la pubblicazione clandestina « Lietuvos Kataliku Bažnyčios Kronika » e altra letteratura. Non avendo trovato nessuna di tali pubblicazioni, mi requisirono una tuta gom­mata che avevo acquistato per andare a pesca. Seppi poi che secondo loro indossando una tuta di quel genere si sarebbe potuto fuggire all'estero! Più tardi il kgb, nel corso degli in­terrogatori, tentò di estorcermi delle « confessioni » e delle deposizioni contro i miei amici residenti in Lituania e a Mo­sca. Come nei tempi passati, cercarono di costringermi a fir­mare una dichiarazione con cui mi impegnavo a non divulgare il contenuto di questi colloqui, ma io rifiutai di farlo.

Questo episodio, che potrebbe ripetersi di nuovo in qual­siasi momento, può dare solo una minima idea dell'atmosfera di incertezza nella quale è costretta a vivere una persona an­che del tutto anonima ed innocua, ma inclusa nelle « liste nere ».

   Ho ormai 44 anni, diciassette dei quali trascorsi nelle prigioni e nei lager. Come si vive in lager può saperlo soltanto chi c'è stato! Io ho rinunciato a crearmi una famiglia, perché  non ho mai voluto che essa dovesse poi soffrire a causa del mio passato. Non ho accumulato denaro perché per il mio la­voro venivo pagato il minimo. Nonostante sette anni di lavoro svolto irreprensibilmente, non dispongo di un alloggio, che mi viene rifiutato con i più svariati pretesti. A motivo del mio pas­sato, sono stato privato per sempre del diritto, insignificante per un cittadino di qualsiasi altro paese, di fare visita ai parenti ed agli amici residenti all'estero. Un alto funzionario del kgb lituano ha dichiarato brutalmente che non è il caso neanche di par­lare di viaggi simili. Viene così confermato il detto che circola nel lager: « La vita ha aperto davanti a te un abisso che non riuscirai mai a saltare » perché Mosca non perdona coloro i quali hanno osato, anche per una sola volta, ribellarsi ad essa.

Non riuscendo ad intravvedere alcuna prospettiva di cam­biamento in una vita del genere, io per la seconda volta (ora legalmente) sono deciso a lasciare l'Unione Sovietica. Mi ac­coglierebbe un mio fratello residente nel Canada e ho ricevuto inoltre diversi inviti anche da miei amici in Israele. Il 29 gen­naio 1975 mi sono recato all'ufficio dei visti e della registra­zione a Vilnius con i documenti necessari, ma il funzionario competente si è rifiutato di accettarli in quanto, sul mio pas­saporto, vi è la dicitura « Disposizioni sui passaporti ».

In fin dei conti, io voglio uscire da questo Stato proprio a causa di questa annotazione discriminatoria (in senso molto lato). Dato che io sono un cittadino di second'ordine, perché trattenermi qui con la forza?

« Ogni persona ha diritto di lasciare qualsiasi paese, com­preso il proprio, e di tornarvi nuovamente », proclama la Di­chiarazione universale dei diritti dell'uomo, la quale è stata sottoscritta anche dall'Unione Sovietica!

Vi prego di dare disposizioni alle competenti istanze della rss di Lituania perché mi venga concesso il permesso di emi­grare all'estero.

Vilnius, 19 febbraio 1975        K. Jokubynas *

 

 

 

Jokubinas fu autorizzato a visitare suo fratello in Canada nel 1977, e una volta giunto in Canada fu privato della cittadinanza

sovietica. (NdT)

 

Petizione di cattolici per riavere la loro chiesa espropriata. Esposto del comitato parrocchiale di Ignalina, rss di Lituania

Al Segretario generale del ce del pcus, compagno Leonid Breznev,

e per conoscenza: ai Soviet per gli affari religiosi dell'urss e della rssl, al Presidium del Soviet supremo dellarss e alla Curia dell'arcidiocesi di Vilnius

 

Prima della seconda guerra mondiale noi credenti di Igna­lina avevamo cominciato a costruire una chiesa. Provvisoria­mente le funzioni venivano celebrate nella stanza di un edifi­cio d'abitazione. Lo scoppio della guerra impedì di portare a termine la chiesa: essa rimase senza il tetto. Negli anni del dopoguerra l'amministrazione provinciale in modo disonesto e con l'inganno confiscò la chiesa non ultimata e tutto il mate­riale da costruzione non ancora utilizzato, promettendo che avrebbe realizzato il tetto a condizione che noi pagassimo la manodopera. Ma una volta messo il tetto la chiesa venne tra­sformata in « casa della cultura ».

Nel 1971, saputo che ad Ignalina sarebbe stata edificata una nuova casa della cultura, ci rivolgemmo per due volte al vice­presidente del Comitato esecutivo della provincia di Ignalina, A. Vaitonis, pregandolo di restituirci la chiesa. A. Vaitonis ci rispose brutalmente: « Non c'è niente da fare, non vi illudete. Non vi daremo nulla! Per questo problema dovevate sporgere reclamo nel 1950; allora vi avremmo restituito la chiesa. Ora è troppo tardi! ».La presidentessa del Comitato esecutivo del­la provincia, E. Gudukienè, affermava inoltre che questo edifi­cio era assolutamente indispensabile come casa della cultura. Quando le venne fatto osservare che non era adatto a tale scopo perché era troppo piccolo e le colonne all'interno impedi­vano la visibilità la presidentessa si dichiarò d'accordo, ma spiegò che lo Stato non avrebbe destinato dei fondi per la costruzione di una nuova casa della cultura e che per il cor­rente quinquennio la sua costruzione non era nemmeno pre­vista.

In quello stesso anno poi abbiamo scritto per due volte de­gli esposti al Presidente del Presidium del Soviet supremo del­la rssl e al Segretario del ce del pc di Lituania, inviandone copia anche al Presidente del Consiglio dei ministri della rssl, all'incaricato del Consiglio per gli affari religiosi della rssl e alla Curia dell'arcidiocesi di Vilnius. Il primo esposto fu firmato soltanto da una parte dei credenti della nostra parrocchia: 1.026 persone.

A questi esposti nessuno degli uffici sopra ricordati rispose. Soltanto dopo avergli mandato un secondo esposto, l'incaricato del Consiglio per gli affari religiosi J. Rugienis ci definì dei

sabotatori », aggiungendo: « Non chiedete nulla, perché non avrete nulla! Se vi si concede questo, vorrete poi qualcosa d'altro! ». Egli ci accolse inoltre molto incivilmente, non fa­cendo che urlare per tutto il tempo.

Qualche tempo dopo giunse ad Ignalina uno sconosciuto, che convocò il presidente del comitato parrocchiale J. Grine­vičius, un vecchietto ottantenne, ed esaminò con lui l'esterno della nostra chiesa. Dopo averla misurata a passi, decise che essa era « sufficientemente grande ». Più tardi apprendemmo che quella persona era un incaricato del Consiglio per gli af­fari religiosi.

Dopo questa visita, il vicepresidente del Comitato esecuti­vo della provincia di Ignalina, A. Vaitonis, comunicò che J. Rugienis aveva espresso parere contrario in merito al pro­blema della restituzione della chiesa. Al riguardo non ci fece vedere nulla di scritto; aggiunse soltanto che nessuno ci im­pediva di pregare, dato che nella chiesetta provvisoria c'era spazio sufficiente, ma che nessuno ci avrebbe restituito la chiesa, poiché l'edificio era necessario alla casa della cultura.

Situazione insopportabile nell'attuale « chiesa »

Una risposta del genere è una grossolana presa in giro dei credenti. Ci è stato detto: « Nessuno vi impedisce di pregare »; ma proprio il direttore della casa della cultura un giorno spac­cò con un sasso la finestra della chiesetta durante una funzione religiosa. E che cosa dire poi della musica, delle orchestre e di altri divertimenti chiassosi che vengono spesso organizzati contemporaneamente alle nostre funzioni? Tra la nostra chie­setta provvisoria e la casa della cultura installata nella chiesa confiscata ci sono appena 6 metri di distanza.

« Avete spazio a sufficienza! » affermano coloro che non vo­gliono restituirci la chiesa. Ma in realtà la nostra chiesetta prov­visoria consiste in una semplice casa d'abitazione la cui su­perficie complessiva è di 102 metri quadrati. Lo spazio utile di cui possono usufruire i credenti si aggira sui 70 metri quadrati.

Oggi Ignalina conta oltre 4.000 abitanti, per la maggioranza cattolici, ed è inoltre il centro della provincia. Qui giungono per varie necessità molti credenti dalle altre parrocchie i quali, la domenica e nei giorni festivi, cercano di adempiere anche a! proprio dovere religioso di assistere alla santa Messa. Ignalina è anche una località climatica di cura. Nella città e nei suoi din­torni vengono a villeggiare migliaia di cittadini da Leningrado, da Mosca e da altre città dell'Unione Sovietica. Molti vengono nella nostra chiesetta per le funzioni e come possono entrare tutti in una cappella in grado di accogliere appena 200-250 persone?! Non a torto i turisti dicono che i credenti di Ignah na vengono discriminati e si meravigliano che in una città dove ci sono tanti credenti non esista una chiesa normale... Durante le funzioni anche con il tempo cattivo la gente è costretta a restare fuori perché nella chiesetta non c'è posto. Inoltre, du­rante l'inverno, all'interno del locale l'aria è molto umida e sof­focante.

Oggi si fa molto per la pace e la collaborazione tra i paesi di tutto il mondo. Appena un mese fa è stato firmato ad Helsinki l'atto finale della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, sottoscritto anche dall'Unione Sovietica nella vostra persona, Segretario generale. Se gli obblighi internazionali assunti dall'Unione Sovietica e la Costituzione del nostro pae­se permettono di professare pubblicamente la religione biso­gna che vengano create a tale fine le condizioni necessarie. In questo caso anche ai credenti di Ignalina dovrebbe essere restituita la loro chiesa.

Attualmente ad Ignalina la costruzione della nuova casa della cultura è quasi ultimata (si stanno eseguendo i lavori di rifinitura). Pertanto ci appelliamo a Voi, Segretario gene­rale, affinché vogliate disporre che la chiesa da noi edificata ci venga restituita. Il nostro precedente appello inviato al governo della Lituania sovietica per chiedere la restituzione era stato firmato da oltre mille persone, molte delle quali so­no state perseguitate per aver sottoscritto questo documento. Pertanto il presente esposto è firmato soltanto da noi, membri del comitato parrocchiale di Ignalina.

Preghiamo di aiutare i credenti di Ignalina a riavere la lo­ro chiesa, da loro stessi costruita.

Ignalina, 10 settembre 1975

Seguono le firme di 19 membri del comitato parrocchiale di Ignalina.

 

LE TRIBOLAZIONI DI VIDMANTAS POVILIONIS

 

Nel 1973 Vidmantas Povilionis, insieme a Š. Žukauskas ed altri, venne condannato a due anni di lavori correzionali in un lager per « attività antisovietica ».

Rilasciato il 27 marzo 1975, Povilionis chiese che gli venissero restituiti tutti gli oggetti confiscatigli al momento del suo ingresso nel lager. Al momento della riconsegna constatò che mancava l'orologio, per cui avanzò una denun­cia al Procuratore della rss di Mordovia dando inizio contemporaneamente ad uno sciopero della fame. A segui­to di tale gesto, venne rinchiuso in cella di isolamento ed ivi trattenuto per 5 ore oltre il tempo della detenzione a cui era stato condannato.

Come si controllano e si maltrattano gli ex-reclusi

Una volta dimesso dal lager, V. Povilionis non riuscì a farsi registrare come residente in una località fissa in quanto non si trovava più il suo foglio matricolare militare. Al distretto militare gli dissero che non era compito loro ricercare il documento scomparso durante la perquisizione effettuata presso di lui. Dopo aver sporto denuncia al commissario, il foglio matricolare venne rinvenuto presso la sede del commissariato. Poiché Povilionis appena giunto là aveva cominciato a parlare in lituano, il maggiore Lušnin osservò che la prigione non lo aveva ancora raddrizzato.

Intenzionato a reinserirsi nella vita sociale, Povilionis si recò al suo vecchio posto di lavoro, presso la filiale lituana dell'Istituto di ricerca scientifica dell'industria lattiero-ca-searia dell'Unione Sovietica. Qui il direttore Vaitkus gli disse che non c'erano posti disponibili e che inoltre non ci si poteva fidare di gente come lui. Parlando invece con gli ex compagni di lavoro Povilionis apprese che nell'istituto il personale mancava.

Capitato nell'ufficio dell'ente per il turismo, Povilionis lesse un manifesto pubblicitario che invitava ad impiegarsi in qualità di guida turistica. Fece la domanda, ma la segre­taria del partito nell'organizzazione, Grigienė, gli comunicò che la sua richiesta era subordinata al parere favorevole di Vilnius. Alcuni giorni dopo la Grigienė informò Povilionis che il direttore dell'ufficio turistico e dei viaggi, Siau-čiukėnas, aveva detto che della sua assunzione non c'era neanche da parlarne. « Da noi non vengono accettati nem­meno gli ex alcoolizzati disintossicati » spiegò la segre­taria.

« Ma io non sono mai stato in ospedale per alcoolismo! » « Tanto peggio! » replicò la segretaria del partito.

 

Scontri con una polizia occhiuta ed arrogante.

Esposto del cittadino Vidmantas Povilionis, figlio di Jonas, residente a Kaunas, Basanavičiaus al. 40-1

Al Procuratore della rss di Lituania

Il giorno 5 agosto 1975, verso le ore 15,30, venni arrestato nella mia abitazione dall'agente del kgb Aleinikov e fui condotto sotto scorta, alla Sezione affari interni (vrs) del distretto «Le­nin » di Kaunas. Qui giunti, Aleinikov mi comunicò che risulta­va che io non svolgevo alcuna attività lavorativa. Allora dovetti scrivere una dichiarazione spiegando dove lavoravo e con che qualifica. Poi Aleinikov mi ordinò di attendere, perché il capo del vrs voleva interrogarmi. Dato che ufficialmente non ero stato dichiarato in stato di arresto, alla mia richiesta di spiega­zioni venni rinchiuso in una cella insieme ad altri due criminali in stato di fermo. Dopo circa due ore fui condotto in un uffi­cio dove si trovavano Aleinikov e uno sconosciuto maggiore della milizia il quale, anziché salutare, mi aggredì con la doman­da: « Perché ridi? », sebbene in quel momento il mio volto fosse del tutto serio. Dopo avermi urlato questa domanda per tre volte, egli cominciò a chiedermi che cosa avevo scritto nella dichiarazione resa ad Aleinikov tre ore prima. Dal tenore delle sue domande compresi che egli non era del tutto al corrente della faccenda, sebbene avessi intuito che egli era direttamente responsabile del mio arresto. Nel frattempo Aleinikov recitava la parte di un osservatore estraneo.

Chiesi allora perché non ero stato convocato al vrs per iscrit­to ma vi ero stato condotto con la forza, e mi venne risposto che mi erano stati inviati numerosi inviti ma che non ero stato trovato in casa.

Mio padre, che abita stabilmente al mio stesso indirizzo, di­chiarò che non era arrivato alcun invito o comunicazione. Dopo questo colloquio mi venne comunicato che ero libero.

Considero una violazione della legge il fatto di essere stato fermato senza alcuna ragione.

Tornato a casa, trovai aperta la porta della veranda; anche la serratura della porta della stanza era stata forzata: si potevano scorgere chiaramente i segni di effrazione prodotti da arnesi da scasso. Le due serrature dell'ingresso principale apparivano pu­re forzate e manomesse. Gli agenti della polizia da me chia­mati, tra i quali un sottotenente che aveva anche presenziato al mio fermo, si comportarono in un modo inaudito. Senza esa­minare le tracce del reato, senza rilevare le eventuali impronte digitali o altro, fecero abbattere immediatamente la porta (in quanto era impossibile aprire con la chiave) mentre loro, usci­ti nel cortile, si misero beatamente a fumare. Entrati poi nella stanza, mi ingiunsero di controllare se era stato rubato qualche cosa. Alla mia risposta negativa, mi fecero scrivere un foglio nel quale dichiaravamo di non avere alcuna lamentela da avanzare nei riguardi della milizia. Chiesi loro se i criminali sarebbero sta­ti ricercati, ed essi risposero che forse avrebbero fatto qualche indagine. Tale modo di adempiere ai propri doveri non fa cer­to onore ai funzionari della polizia e dimostra inoltre la loro totale incompetenza professionale.

Suscita indignazione il fatto che i delinquenti abbiano tutto il tempo di agire indisturbati approfittando della lentezza buro­cratica dei funzionari sia di quell'ufficio che di altri. Il 20 marzo 1975 mio padre Jonas Povilionis, figlio di Kazys, venne convocato presso l'ufficio della previdenza sociale di Kaunas dove fu trattenuto per 4 ore senza alcuna ragione. Al suo rientro a casa trovò le serrature delle porte forzate e danneg­giate. E finora la polizia non è riuscita a trovare i colpevoli.

Sebbene dopo il mio arresto due agenti del kgb dopo aver par­lato con Aleinikov fossero entrati nel mio cortile, i delinquenti hanno avuto modo di scassinare 4 serrature nello spazio di 3 ore. Non arrivo ad affermare che i ladri ricevano dal kgb o dal vrs le informazioni sulle operazioni di polizia in corso, ma certo ta­li coincidenze e l'intraprendenza dei ladri sono veramente sba­lorditive.

Ciò premesso, si prega di adottare ogni possibile misura affin­ché sui fatti descritti, singolarmente collegati tra loro, venga fatta piena luce.

Kaunas, 21 agosto 1975        V. Povilionis

 

A tale riguardo la LKB KRONIKA è a conoscenza di molti altri casi in cui agenti del kgb travestiti da ladri sono en­trati nelle abitazioni delle persone sospette per rovistare qua e là.